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Politica Alfredo Strocchia 10 agosto 2020 18:49 Circa 3 minuti per leggerlo stampa
All'indomani di aver saputo che il contributo governativo per il covid è erogabile a parlamentari in carica che gradiscono e della sorpresa di una Marigliano risvegliatasi in piena campagna elettorale tappezzata di curiosi manifesti, è arduo narrare di teoria politica e resistere alla tentazione di commentare i fatti politici del giorno, ma, coerentemente con gli obiettivi fissati, si torna a prenderla alla larga. Oggi, guarda caso, è il turno della morale, così distante da noi, ma sempre così vicina alla nostra coscienza.
È tipico di una corposa corrente politica, che ama definirsi realista, ritenere che i mezzi politici asserviti al fine di mantenere lo Stato vadano "sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati". Tale filone di pensiero, fin dai tempi antichi, ci ha persuasi circa l'ingiudicabilità morale dell'etica politica, la quale è ritenuta un insieme di norme comportamentali a sé stanti e non comparabili con altre considerazioni etiche.
Nella storia, il realismo politico è invocato a più riprese per giustificare, in nome di una ragione superiore, azioni e comportamenti che individualmente apparirebbero ingiustificabili, ma che vengono accettate ed elogiate per ragioni di stato. In effetti, nella scienza politica la tendenza degli uomini potenti alla conservazione del potere trova senso nella profonda convinzione che perpetrare questo potere sia un atto necessario alla continuazione del migliore dei mondi possibili, cioè quello pensato e regolato da se stessi, seguendo una sorta d'istinto di sopravvivenza. In tale ottica, la maturità della classe politica è valutata in base alla capacità di accumulare e conservare potenza. Ciò è vero a tutti i livelli politici.
Nella pratica, però, la storia ci insegna che "il possesso della forza corrompe inevitabilmente il giudizio della ragione" e l'autoreferenzialità assume spesso, meglio dire quasi sempre, i tratti di un opportunismo interessato. Anche ciò è vero a tutti i livelli politici. Così, il realismo politico delle belle teorie viene tradito da chi lo professa proprio nella sua componente reale, ossia nella pratica politica. Inoltre, ammesso che il fine giustifichi i mezzi, "chi giustificherà il fine?"
Fuori da cliché tramandati per convenienza e riflettendo sul senso originario del termine politica, ci si rende conto che essa ha poco a che spartire con il termine potere, piuttosto, essa affonda le radici nella condivisione delle decisioni circa le sorti di una comunità. Mentre il potere è una bramosia della sfera privata, la politica è un'esigenza della dimensione pubblica. Il pubblico, difformemente dal privato, non può esistere senza una moralità, come il noi, difformemente dall'io, non può esistere senza un altro, pena vivere da monadi di leibniziana memoria. Pertanto, politica senza morale non è politica. In tale ottica, indicatore della maturità politica è il grado di capacità di rinuncia al potere da parte della classe dirigente a vantaggio dell'assunzione di responsabilità, dove l'individuo non è una quantità da sfruttare oppure un elettore da adulare, bensì un cittadino da servire.
A questo punto, da contraltare all'iniziale precetto realistico di un big della politica vorrei contrapporre la conclusiva riflessione categorica di un big della morale, suggerendo a tutti noi di agire "in modo da considerare l'umanità come fine" e non come un mezzo per raggiungimento di altri fini, comprendendo che la politica, quella vera, non deve sforzarsi di essere morale, perché è già morale per costituzione.
I giochi di potere e la capacità di assumersi le responsabilità esistono a tutti i livelli, anche qui, anche oggi, anche a Marigliano. Sta a noi decidere se essere mezzo oppure fine.
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