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Storia Carlo Borriello 01 novembre 2007 23:35 Circa 4 minuti per leggerlo stampa
Nel 1896 Umberto I concedeva a Marigliano il titolo di Città. "Umberto I per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d'Italia. Sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari dell'Interno, Presidente del Consiglio dei Ministri. Veduta la domanda del Comune di Marigliano per la concessione del titolo di Città. Udito il parere della Consulta Araldica; Veduto l'articolo 79 dello Statuto fondamentale del regno, e l'articolo 38 del Regolamento sulla Consulta Araldica approvato con Nostro Decreto 8 gennaio 1888; abbiamo conceduto e concediamo al Comune di Marigliano, in provincia di Terra di Lavoro, il titolo di Città. Firmato: Umberto I - Controfirmato: Crispi"
Indubbiamente negli ultimi decenni dell'ottocento e nei primi del nostro Marigliano era uno dei comuni più titolati dell'agro acerrano-nolano. Difatti lo sviluppo urbanistico s'integrava col centro antico, rispettandone le caratteristiche originarie e salvaguardando i monumenti. Le facciate dei palazzi signorili si arricchivano di stucchi e di pitture in stile neoclassico che l'insensibilità e il cattivo gusto del nostro tempo hanno spazzato via selvaggiamente.
La città, pulita e ordinata, era servita da due strade ferrate (la Nola-Baiano entrò in funzione nel 1884); era fornita di energia elettrica, di un adeguato sistema fognario e dell'acqua del Serino. Essa era animata, altresì, dal fervore religioso e culturale del beato Michelangelo Longo, del vescovo Michele Mautone e dell'arcivescovo Benedetto Bonazzi. Intensa era, infine, la produzione artistica di Enrico Fiore, Domenico ed Elia Di Pinto. "Marigliano - riporta la Chronica della Collegiata dell'epoca - presenta caratteri, requisiti molto superiori, e più rilevanti di qualsiasi paese della Diocesi. Oggi più dei tempi andati a causa del progressivo sviluppo della sua vita morale e materiale è tenuto in posizione uguale alle città principali del Regno (fatte le debite proporzioni) in paragone della stessa Nola, sede vescovile.
E' adesso capoluogo di estesissimo mandamento, sede di pretura, ricevitoria del registro e bollo, delegazione di pubblica sicurezza, e diversi altri uffici pubblici, centro di sei comuni, di altrettanti villaggi circumvi- ciniori, comune di tredicimila abitanti e più secondo l'ultima statistica classificati in famiglie magnatizie titolate, benestanti ed industriose; tiene diverse istituzioni di pubblica beneficenza, ed educazione civile e religiosa; congreghe di carità, ospedale civile, asilo infantile, scuole pubbliche e private". (1).
Nel capitolo: "Marigliano nel secolo XIX" della sua "Storia" il Ricciardi scrive:
"Feconda è questa terra ove il simultaneo concorso di elementi propizi alla vita rende svariata la produzione dei viventi. L'industria da tutto sa cavare profitto ed un ben consigliato metodo agrario frutta all'agricoltura buoni guadagni. Sono rimarchevoli le fabbriche d'acquavite, che mantengono essenzialmente il traffico in Marigliano e menano innanzi con meravigliosa operosità il commercio, mercè i perfezionati metodi di distillazione.
L'attività lavoratrice di Marigliano adunque è la più importante e seria manifestazione dei suoi cittadini. Vi sono moltissimi piccoli industriali che formano una massa imponente di produzione che supera nel suo insieme la massa di lavoro prodotta dai grandi laboratori.
Marigliano vanta una Casina di riunione, un Palazzo comunale, una patriottica Società operaia e una Banca di mutuo soccorso" (2). Questa è la Marigliano "umbertina", una città costruita in superfice dalla classe dirigente dell'epoca, paternalistica e filantropica (la pietà e la carità tenevano luogo della giustizia), sollecitata più da spirito di emulazione e dall'ostentazione che da un vero e proprio impegno civile di trasformazione della nostra comunità che, intanto, rimaneva immobile, chiusa nel quotidiano, incapace di prendere iniziative.
Col passare del tempo si è accentuata nei mariglianesi una tendenza centrifuga che li spinge sempre più nel limbo dell'indifferenza. D'altra parte ci manca il cemento di una tradizione culturale da custodire e rinnovare. Con la trasformazione della civiltà contadina e l'avvento del terziario abbiamo perduto, senza sostituirli, quei valori che in un certo qualmodo costituivano il nostro "humus". Ogni manifestazione della vita sociale diventa un fatto episodico senza continuità. Rare volte abbiamo avuto qualche sprazzo di orgoglio.
Gli è che non abbiamo un buon rapporto con la memoria storica in quanto consideriamo il nostro passato come un elemento di ostentazione. Amiamo la rappresentazione archeologica della città e questa è una tipica forma di immobilismo che ci deriva dalla rimozione della conoscenza. La memoria non può esistere senza giudizio. Se non possediamo veramente il passato non possediamo neppure il presente."Una città è viva se produce linguaggio: non solo parole, ma idee, concetti, segni, proposte, utopie, punti di vista, per raccontare se stessa". (3).
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